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Nel primo giorno della settimana, il giorno dopo il sabato, che i Vangeli tutti — pur nella diversità degli accenti e delle immagini — riconoscono come il tempo in cui il sepolcro si è rivelato vuoto, e la tomba, da confine della vita, è divenuta soglia dell’eternità, la Chiesa celebra la Domenica di Pasqua, culmine del Triduo e sorgente del tempo nuovo, inizio del calendario escatologico, giorno non soltanto primo, ma ottavo, e dunque simbolicamente eterno.
È in questa alba — che, come scrive Giovanni, “era ancora buio” (Gv 20,1), ma già carica di un’aurora che non sarà più tramonto — che le donne, prime testimoni della Risurrezione, giungono al sepolcro per onorare con gli aromi il corpo di Gesù, e invece trovano un segno capovolgente, un annuncio inatteso, una pietra ribaltata non solo fisicamente, ma teologicamente: segno della potenza del Padre che ha risuscitato il Figlio e ha rotto per sempre i vincoli della morte. “Non è qui. È risorto” (Lc 24,6): con queste parole — sobrie ma decisive — si apre il Vangelo pasquale, che non racconta l’evento della Risurrezione in sé, ma ne mostra gli effetti, i segni e soprattutto gli incontri trasformanti.
In Maria di Magdala, che riconosce il Risorto solo quando Egli la chiama per nome (cf. Gv 20,16); nei due di Emmaus, che lo incontrano misteriosamente sulla strada e infine lo riconoscono “nello spezzare il pane” (Lc 24,35); nel gruppo degli apostoli chiusi per paura, ai quali Gesù appare dicendo “Pace a voi” (Gv 20,19), la teologia della Risurrezione si dispiega non come semplice ritorno alla vita, ma come trasfigurazione del rapporto tra Dio e l’uomo, tra il tempo e l’eternità, tra la storia e il mistero.
La tradizione patristica, riflettendo sul mistero del giorno pasquale, non ha esitato a dichiararlo “il giorno della nuova creazione”, come fa ad esempio Sant’Ireneo, che afferma: “Come nel primo giorno della creazione Dio creò la luce, così nel giorno della Risurrezione il Cristo, luce del mondo, ha illuminato la nuova creazione” (Adversus Haereses, V, 28,4). Allo stesso modo, Sant’Agostino, commentando il salmo 118, definisce la Pasqua come “il giorno che ha fatto il Signore, giorno senza sera, giorno dell’eternità”, e invita ogni credente a non cercare più il Vivente tra i morti, ma a lasciarsi trovare da Lui nel pane spezzato, nella Parola proclamata, nella comunità radunata.
La Domenica di Pasqua, nella sua dimensione liturgica e sacramentale, è dunque la rivelazione piena del Mistero pasquale, che il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce come “il passaggio di Cristo attraverso la morte alla vita, compiuto una volta per tutte, che coinvolge anche noi nella sua dinamica di morte e risurrezione” (CCC, 654). Tale mistero, reso presente nella celebrazione eucaristica, trova nella Messa del giorno di Pasqua la sua più solenne e gioiosa espressione: l’annuncio della Risurrezione si fa canto, la Parola si fa luce, l’altare si fa mensa di vita nuova.
L’eucaristia pasquale è infatti non solo memoriale della Risurrezione, ma partecipazione reale al Cristo vivente. Come ricorda San Leone Magno, “ciò che era visibile in Cristo è passato nei sacramenti della Chiesa” (Sermo 74), e dunque la Risurrezione, pur non essendo osservabile come un fatto empirico, diventa esperienza viva nella celebrazione: il Risorto si dona nel pane e nel vino, e così l’evento pasquale entra nel corpo della Chiesa.
In questo senso, la riflessione dei teologi contemporanei ha spesso insistito sulla dimensione ecclesiologica della Pasqua: come scrive Hans Urs von Balthasar, “la Risurrezione non è solo la vittoria di Cristo, ma il fondamento della Chiesa, la sua origine viva e perennemente attuale” (Mysterium Paschale, 1967). La comunità cristiana nasce nel giorno di Pasqua, quando Gesù alita sui discepoli e dice: “Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20,22), gesto che, congiunto all’apparizione e alla missione (“Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”), costituisce un’autentica Pentecoste anticipata, in cui la Pasqua genera la Chiesa come Corpo del Risorto.
La Domenica di Pasqua, in quanto tale, non si esaurisce nella celebrazione del mattino o nella solennità liturgica, ma si apre a un tempo pasquale di cinquanta giorni, che la Chiesa antica considerava “un’unica grande domenica” (cf. Tertulliano, De Baptismo, XIX), fino alla Pentecoste. La Risurrezione, infatti, non è una meta conclusa, ma un principio attivo, un dinamismo che attraversa la storia, trasfigura l’esistenza e orienta ogni cosa verso la gloria. In questo tempo, l’Alleluia diventa il canto permanente della comunità, la Parola si fa luce quotidiana, il battesimo si fa vita nuova, e ogni domenica — dies Domini — è memoriale della Pasqua settimanale.
La spiritualità monastica, in particolare quella benedettina, vive la Domenica di Pasqua come la festa delle feste, ma non nella forma del trionfalismo, bensì nella profondità del silenzio orante, della gioia composta e della vigilanza interiore, che permette di cogliere i segni del Risorto nella Scrittura e nella fraternità. San Benedetto, pur non elaborando una teologia esplicita della Pasqua nella Regola, struttura tuttavia la vita del monastero sulla celebrazione dell’Opus Dei, in cui ogni ora — in particolare i salmi e i cantici pasquali — diventa eco della Risurrezione. Nella preghiera dell’Ufficio delle Lodi, il monaco canta “Haec dies quam fecit Dominus: exsultemus et laetemur in ea” (Sal 118,24), e lo fa come uomo risorto, come testimone dell’aurora, come sentinella che ha visto spuntare la luce.
Per questo la Domenica di Pasqua è — e resta — la sorgente e il vertice della vita cristiana, come ribadisce il Concilio Vaticano II nella Sacrosanctum Concilium, al n. 106: “Secondo una tradizione apostolica, che trae origine dal giorno stesso della Risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, nel giorno che è detto ‘giorno del Signore’ o ‘domenica’. Perciò la domenica è la festa primordiale, che deve essere proposta e inculcata alla pietà dei fedeli come il giorno di festa per eccellenza”.
In essa il credente, lasciandosi toccare dalla luce del Risorto, entra già in quella vita nuova che non conosce tramonto, e che — come scrive Gregorio di Nissa — “ci chiama a una progressiva trasformazione verso la somiglianza divina, finché Dio sia tutto in tutti”.