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Nel misterioso snodo liturgico del Triduo Pasquale, in quel Giovedì che apre la soglia del Mistero pasquale e la cui intensità spirituale e sacramentale non trova eguali nel corso dell’anno ecclesiale, la Chiesa cattolica riconosce, celebra e rende attuale — sacramentalmente, ecclesialmente, e interiormente — il dono supremo che Cristo fa di sé all’umanità: il suo Corpo e il suo Sangue, offerti nell’Eucaristia; il suo ministero sacerdotale, trasmesso agli Apostoli; e il comandamento dell’amore fraterno, espresso nel gesto della lavanda dei piedi.
Tutti questi aspetti, che la tradizione liturgica e dogmatica custodisce con sapienza e venerazione, trovano una peculiare risonanza nella spiritualità benedettina, la quale, senza separare la lex orandi dalla lex vivendi, ha visto nella liturgia non solo il “luogo” in cui si incontra Dio, ma il “tempo” in cui si conforma a Cristo.
Nel cenacolo — così come lo presenta il Vangelo di Luca — “prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me” (Lc 22,19), non si consuma solo un gesto rituale, ma si inaugura un nuovo ordine sacro, un ordo amoris, in cui il sacro non è separato dalla vita, ma la trasforma. La Regola di San Benedetto, nel suo impianto monastico e mistico, ben comprende la portata di questo mistero, tanto da inscrivere ogni azione del monaco — dall’opus Dei al lavoro manuale, dal silenzio al servizio dei confratelli — entro un movimento di oblatio eucaristica, una vita che si fa “offerta pura”, come recita la preghiera eucaristica III. “Nihil amori Christi praeponere” (RB 4,21) — “non anteporre nulla all’amore di Cristo” — diventa la chiave di lettura della Cena del Signore, laddove Cristo stesso non antepone nulla al nostro bisogno di salvezza, fino al dono di sé.
La spiritualità benedettina, che ha nel silenzio, nell’umiltà e nella stabilità i suoi cardini, vede nella lavanda dei piedi, narrata unicamente da Giovanni (Gv 13,1-15), il gesto paradigmatico del discendere per servire, del farsi piccolo per manifestare la vera grandezza. “Il Signore e Maestro si china ai piedi dei suoi discepoli”, come dice il Vangelo, ma anche come medita profondamente San Gregorio Magno, pontefice benedettino nello spirito prima ancora che nella forma, quando scrive: “Se il Creatore dell’uomo si è degnato di diventare uomo, che c’è di strano se egli si umilia lavando i piedi ai suoi compagni di condizione?” (Homiliae in Evangelia, XXVII, 2).
È proprio in questa umiltà, che Benedetto pone al centro del cammino ascetico del monaco (cf. RB 7), che si rivela il senso più profondo del Giovedì Santo: l’umiltà che non è sminuimento ma verità; non servilismo, ma libertà di amare senza misura. L’umiltà di Cristo che, come afferma Paolo nella Lettera ai Filippesi — “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò sé stesso” (Fil 2,6-7) — si fa fondamento per ogni autentico ministero ecclesiale.
È perciò che, nella spiritualità benedettina, l’officium liturgico del Giovedì Santo assume una dimensione contemplativa e pedagogica: non solo si celebra il dono dell’Eucaristia, ma si impara a vivere eucaristicamente, ossia secondo la logica del dono, del servizio reciproco, dell’offerta continua. Come nota Jean Leclercq, eminente monaco e studioso benedettino, “la liturgia per Benedetto è scuola di Cristo, scuola del cuore, in cui si apprende a piegarsi sotto il giogo dolce della croce” (L’amour des lettres et le désir de Dieu, 1957).
Nel canto gregoriano del Ubi caritas, intonato durante la lavanda dei piedi, si esprime poeticamente e spiritualmente l’anima di questo giorno: “Ubi caritas et amor, Deus ibi est” — là dove sono carità e amore, lì c’è Dio. È un’antifona antica, ma carica di verità sempre nuova, nella quale la spiritualità benedettina, attenta alla presenza di Dio nel fratello, nel tempo, nella liturgia e nel silenzio, riconosce la traccia del Verbo che si china, che spezza il pane, che lava i piedi.
Nel Giovedì Santo, la Chiesa — e con essa ogni comunità monastica che si raduna nel coro per l’ufficio solenne e per la Cena del Signore — celebra dunque il mistero di un Dio che si dona totalmente, e lo fa in gesti concreti, sacramentali e relazionali. Come sottolinea il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1337: “Gesù, sapendo che era giunta la sua ora… ama fino alla fine. E proprio nell’ultima Cena, anticipa l’offerta libera della sua vita”. La Regola benedettina, con la sua costante insistenza sulla conversatio morum, invita ogni credente a vivere quotidianamente quella offerta, facendo della propria vita — in ogni azione e in ogni parola — un’eco fedele del Cenacolo.
Così il Giovedì Santo, alla luce della spiritualità benedettina, si trasfigura da semplice commemorazione a itinerario interiore, da celebrazione liturgica a forma della vita cristiana: un giorno che ci insegna a spezzarci per amore, a lavarci i piedi a vicenda, a tacere per ascoltare, a cantare per aderire — come fa il monaco nell’oscurità dell’alba, quando la lode sorge prima del sole, e la Pasqua inizia in una sala al piano superiore, con un gesto d’amore.